CERN

AEGIS – Antimateria fotografata con risoluzione senza precedenti grazie a sensori di smartphone opportunamente modificati

L’esperimento AEGIS (Antimatter Experiment: Gravity Interferometry and Spectroscopy), in corso al CERN, al quale contribuiscono in modo significativo anche l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e l’Università degli Studi di Brescia, ha ottenuto un importante risultato pubblicato sulla rivista “Science Advances”.

I ricercatori di AEGIS hanno sviluppato un’idea rivoluzionaria per studiare l’antimateria: hanno “hackerato” un sensore di immagine comunemente utilizzato nelle fotocamere dei telefoni cellulari (si tratta del Sony IMX686), normalmente usato per trasformare la luce in ingresso in un’immagine digitale, modificandolo per  rivelare le antiparticelle in arrivo. L’uso di questi sensori (chiamati CMOS, Complementary Metal Oxide Semiconductor), che hanno pixel di silicio di dimensioni inferiori a un millesimo di millimetro, ha portato a risultati senza precedenti.

L’esperimento, infatti, ha stabilito un nuovo record mondiale di risoluzione nella rivelazione delle annichilazioni di antimateria, riuscendo a determinare la posizione dell’impatto degli antiprotoni sulla superficie del sensore con una precisione di 600 nanometri (milionesimi di millimetro). Oltre al punto di impatto, il sensore ha dimostrato di essere in grado di rivelare anche la traiettoria dei frammenti risultanti dall’annichilazione con la più alta risoluzione mai raggiunta finora in un rivelatore a pixel.

 

AEGIS è uno degli esperimenti attivi nella Antimatter Factory del CERN e vede il coinvolgimento di numerose realtà italiane all’interno di una nutrita collaborazione internazionale: oltre all’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, presente con le Sezioni di Milano, Pavia e con il TIFPA di Trento), sono coinvolti ricercatori dell’Università di Trento, della Statale di Milano, del Politecnico di Milano e dell’Università di Brescia. Quest’ultima, in particolare, è stata tra i pionieri del settore: è stata una delle istituzioni accademiche che aveva proposto l’esperimento AEGIS, nell’ormai lontano 2007.

L’obiettivo di AEGIS è quello di misurare l’accelerazione gravitazionale dell’antidrogeno per verificare la validità del principio di equivalenza debole di Einstein, uno dei capisaldi della teoria della Relatività Generale, anche per l’antimateria. Con questo scopo è stato sviluppato il sensore oggetto della nuova pubblicazione: ma come spesso succede, si è capito che lo stesso sensore potrebbe essere utile anche per altre applicazioni, come ad esempio l’imaging biomedico.

“Il rivelatore realizzato è l’equivalente elettronico di una lastra fotografica”, spiega Nicola Zurlo, docente di Fisica Sperimentale dell’Università degli Studi di Brescia, responsabile della calibrazione dei rivelatori a scintillazione all’interno dell’apparato principale di AEGIS.  “Confrontando la risoluzione di ciascun sensore con il record di tracciamento delle particelle in un rivelatore a emulsione, che si attesta intorno a 300 nanometri (ottenuto dall’esperimento OPERA ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso), si osserva che il nuovo dispositivo raggiunge una risoluzione praticamente equivalente, ma in modalità elettronica, rendendo quindi i dati immediatamente leggibili. Non saranno più necessarie ore o giorni per procedere con lo “sviluppo” della lastra ad emulsione e conoscere quindi il risultato finale.

 

“Questo sensore rappresenta un vero e proprio punto di svolta per l’osservazione della piccola deviazione causata dalla gravità in un fascio di antidrogeno, e potrebbe avere un impatto significativo anche più in generale per la fisica delle particelle, specialmente in esperimenti dove l’alta risoluzione di posizione è cruciale”, commenta Ruggero Caravita, ricercatore INFN e responsabile della collaborazione AEGIS. “Grazie a questa straordinaria risoluzione, siamo anche in grado di distinguere le diverse tipologie di frammenti delle annichilazioni, frammenti nucleari, particelle alfa, protoni e pioni”, conclude Caravita.

 

“Purtroppo, un singolo sensore non è sufficiente per la maggior parte degli scopi, date le sue ridotte dimensioni”, commenta Francesco Guatieri della  Technical University of Munich, coordinatore della ricerca, “per questo abbiamo dovuto integrato 60 di questi sensori in un singolo dispositivo, l’Optical Photon and Antimatter Imager (OPHANIM), ottenendo il rivelatore fotografico con il maggior numero di pixel attualmente operativo: circa 3.84 miliardi di pixel. Questo ci permette di avere sia altissima risoluzione, sia una buona superficie di raccolta delle particelle”.

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