Tra gli addetti ai lavori è noto come “professor privilege”. E consiste nell’attribuzione allo studioso, anziché all’ente, della titolarità del brevetto collegato alla sua attività di ricerca. Ma è un sistema che potrebbe avere i mesi contati. Il Consiglio dei ministri del 1° dicembre scorso ha approvato il disegno di legge per la revisione del Codice della proprietà industriale che ribalta il paradigma appena descritto e assegna in automatico all’università (o ad altro organismo pubblico) i diritti sull’invenzione. Con l’obiettivo esplicito di allinearsi al sistema in uso nella maggior parte dell’Ue e quello implicito di favorire il trasferimento tecnologico, e dunque l’osmosi di innovazione, tra il mondo pubblico e quello privato. Il provvedimento, compatibilmente con la sessione di bilancio, dovrebbe iniziare il suo iter entro fine anno ed essere approvato entro il terzo trimestre del 2023. Almeno stando alle milestones del Pnrr.
L’art. 3 del Ddl licenziato in Cdm il 1° dicembre, come detto, sposta la titolarità delle invenzioni realizzate dal personale di ricerca, in prima battuta, alla struttura di appartenenza e, solo in caso di inerzia di quest’ultima, al ricercatore. Ampliando contestualmente i beneficiari: alle università statali ed enti pubblici di ricerca previsti oggi dall’articolo 65 del Codice di proprietà intellettuale si aggiungono le non statali legalmente riconosciute, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) e gli organismi che svolgono attività di ricerca e di promozione delle competenze tecnico-scientifiche senza scopo di lucro. Per effetto del nuovo meccanismo, l’inventore (anche uno studente nell’ambito delle attività di laboratorio, ndr) annuncia la sua scoperta e l’istituzione di appartenenza ha sei mesi, eventualmente prorogabili, per rispondere. Se decide di usare il brevetto, l’ateneo dovrà poi riconoscergli il 50% degli introiti derivanti dallo sfruttamento economico, detratti i costi di deposito, registrazione e rinnovo.